RASSEGNA STAMPA

CORRIERE SERA - Ma resta la mancata risposta per i pestaggi e le false prove

Roma, 14 novembre 2008

I due superpoliziotti, gli agenti e il «Disegno» che non c'era
Ma resta la mancata risposta per i pestaggi e le false prove

ROMA — Se un tribunale assolve chi si proclama innocente dopo sette anni di inchieste e dibattimenti, significa che gli imputati hanno vinto la partita. Ma per la polizia italiana, e per i suoi uomini più in vista accusati di reati gravi come il falso e la calunnia, la storia del processo Diaz non finisce con questa «vittoria ». Intanto perché resta la vergogna dei pestaggi e delle finte prove. E poi perché la sentenza di ieri (anche con le sue condanne «minori») non ha fatto giustizia di ciò che avvenne nella disgraziata notte della Diaz. L'ha fatta, semmai, per quel che è avvenuto dopo, e cioè un'indagine che — stando al verdetto di primo grado — aveva portato alla sbarra le persone sbagliate. Perché sbagliata è stata l'inchiesta e il modo in cui è stata condotta, almeno dal punto di vista (e nelle considerazioni che si sono accumulate in questi anni, ma senza mai trapelare fuori dalle sedi processuali) di alcuni imputati-poliziotti ora assolti. Nonché dei vertici dell'istituzione, di ieri e di oggi. Imputati e vertici particolari, visto che di mestiere fanno gli investigatori (e qualcuno è considerato tra i migliori), o l'hanno fatto a lungo in passato.
Un'inchiesta fatta male forse perché viziata dalla voglia di scoprire il Grande Disegno dietro il massacro, a tutti i costi. Anche se non c'era. E anche al prezzo di non cavare una versione plausibile dal poliziotto che materialmente portò le due famigerate bottiglie molotov all'interno della scuola, dopo le sconsiderate violenze; rimasto testimone (e indagato solo molto più tardi) anche dopo aver confessato di aver introdotto quelle che il codice considera «armi da guerra » dentro la Diaz, nascoste sotto il giubbotto. Il sospetto — per gli investigatori- imputati, ma anche per i loro superiori che in questi anni hanno seguito da vicino, con immaginabile interesse, prima l'inchiesta e poi il processo — è che i pubblici ministeri temessero di doversi fermare a una verità giudiziaria troppo piccola per le ipotesi dalle quali erano partiti. Che non potessero più arrivare — come invece hanno fatto nelle loro richieste, rigettate dal tribunale — al disegno più grande giunto quasi sulla soglia del capo della polizia di allora, Gianni De Gennaro. Hanno così imbastito la teoria della «corruzione per la nobile causa»: fabbricare prove false pur di incastrare chi si ritiene comunque colpevole. Teoria poco digeribile per chi pensa di aver sempre svolto onestamente il proprio lavoro anche di fronte a criminali di razza. E certo ne hanno visti. Gilberto Caldarozzi, per esempio, — all'epoca numero 2 e oggi capo del Servizio centrale operativo — due anni e mezzo fa fu spedito a Parma dal capo della polizia in persona a tentare di far luce sul sequestro del bambino Tommaso Onofri. Partì, e tornò solo dopo aver arrestato i rapitori-carnefici.
Nel frattempo i suoi uomini avevano messo le manette, al termine di un'indagine che aveva diretto passo dopo passo, ai presunti assassini del vicepresidente del consiglio regionale della Calabria Francesco Fortugno, ancora sotto processo; e pochi giorni dopo era in Sicilia per coordinare le ultime fasi della cattura di Bernardo Provenzano. Quello del «padrino » fu il primo verbale d'arresto che firmò dopo la sciagurata notte genovese. Certo, le promozioni speciali e la medaglia d'oro che gli ha appuntato sul petto il presidente della Repubblica sono state belle soddisfazioni, ma c'era sempre il tarlo dell'odiosa accusa per la Diaz a inquietarlo pure in quei momenti.
Francesco Gratteri, prima di arrivare a guidare la Direzione centrale anticrimine, ha partecipato con un ruolo di primissimo piano all'individuazione e alla cattura degli esecutori della strage di Capaci, quando la mafia sembrava aver messo in ginocchio lo Stato. E più avanti, agli arresti di Leoluca Bagarella, il boss stragista erede di Riina, e di Giovanni Brusca, l'uomo che premette il pulsante per far esplodere il tritolo che uccise Giovanni Falcone, sua moglie e gli uomini della scorta. Sono solo alcuni successi di una carriera proseguita nell'Antiterrorismo, dove ha partecipato allo smantellamento delle Brigate rosse responsabili degli omicidi D'Antona e Biagi insieme a Giovanni Luperi (oggi al servizio segreto civile), anche lui imputato assolto ieri. Gente così non pretendeva trattamenti di favore. Ma nemmeno poteva non accorgersi che negli interrogatori di chi ha materialmente portato le molotov dell'imbroglio alla Diaz mancavano alcune domande da parte degli inquirenti, magari un po' più stringenti. O che fra le telefonate introdotte nel processo mancavano quelle arrivate al 112 e il 113 per avvertire che intorno alla Diaz giravano persone «chiaramente armate » di piccozze e bastoni. Che ovviamente non giustificano i pestaggi, ma possono essere l'indizio che quella maledetta perquisizione non fosse così campata in aria. Poi degenerò in una vergogna alla quale il verdetto di ieri non ha dato risposte, e probabilmente continuerà ad alimentare tensioni. Nei palazzi di giustizia (magari con qualche inchiesta bis, insieme al procedimento a carico di De Gennaro per istigazione alla falsa testimonianza, aperto da un anno e mezzo) e non solo.

Giovanni Bianconi